domenica 15 novembre 2009

La questione del genere

Ci sono due prospettive da distinguere, riguardo alla cosiddetta questione “del genere”: una, più radicale, è la volontà di azzerare la oggettività della differenza di genere, l’altra, più circoscritta, si limita a chiedere che per alcuni esseri umani si valuti la possibilità di una insuperabile difficoltà a vivere (soddisfacentemente) la normale dimensione eterosessuale della vita affettiva.
Nel primo caso avremmo una contestazione radicale, profonda, strutturale dell’esistenza di una natura umana, oggettivamente data ed evidenziata nella differenza fisica; nel secondo caso avremmo, più modestamente, una richiesta di “comprensione” per una “eccezione”, limitata a un numero decisamente ridotto di esseri umani.
Nel primo caso nessun essere umano avrebbe un assetto sessuale già stabilito (per natura, anteriormente alla decisione della volontà), ma potrebbe scegliere, di volta in volta, come si sente, quale ruolo sessuale vuole assumere; avremmo allora, come ebbe a dire l’allora card. Ratzinger, una negazione del corpo, in base a una scelta ideologica antropocentrica di negazione violenta e radicale di ogni forma di dipendenza da tutto ciò che è altro dal proprio volere: dopo aver negato la dipendenza da Dio, si nega la propria dipendenza dal proprio stesso corpo; col risultato di essere “senza corpo”.

Da questa impostazione ideologica dovrebbe poter essere distinta una richiesta più pragmatica e limitata: non la negazione della differenza (e della sua naturalità e della sua bontà), ma la sofferta constatazione di essere portatore di una diversità, che si sa essere una eccezione non “esportabile”, non “propagandabile”, e che non chiede di diventare un modello generale, ma si accontenta di avere un piccolo spazio di accettazione in un mondo che si desidera resti, nella sua stragrande maggioranza, anzi nella sua quasi totalità, eterosessuale.


Nel primo caso siamo di fronte a una ideologia velenosa e potenzialmente corrosiva dell’intero assetto della società umana, nel secondo ci troveremmo di fronte a una richiesta che riguarderebbe su una porzione assolutamente marginale di esseri umani, stabilizzandosi, anche nel caso della più larga tolleranza legislativa e civile, su livelli percentuali inferiori, probabilmente, al 3%.


Nei confronti della prima impostazione è giusto avere una ferma condanna: si tratta di una visione evidentemente incompatibile con una sana antropologia; nel secondo caso qualche perplessità potrebbe forse essere lecita, nel senso che la scelta di lottare per impedire un comportamento, per quanto ritenuto moralmente illecito ma non nocivo a terzi, relativo a una esigua minoranza e non “contagioso”, apparirebbe, in un contesto pluralistico come l’attuale, poco comprensibile.

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